Se l’uomo bianco cercasse adesso l’anima di Tian dovrebbe arrivare alla tenebra del mare, ben oltre lo spazio luminoso del tuffo. E qui rischiare la dissoluzione del corpo per la pressione troppo forte sui polmoni. Laggiù è notte, tanto che i pesci che vivono in queste zone hanno un riflettore sotto ogni occhio o sono ciechi. I raggi di luce che penetrano l’acqua non hanno colori, perchè la forza dell’onda li frantuma e il rosso diventa nero, e se l’anima di Tian è ferita il sangue non si vede. Al suo posto appare invece una lunga scia nera che attraversa gli oceani e che, se si avesse la pazienza di percorrerla, si scoprirebbe abitata da donne bambine. Ma lui non cerca l’anima di Tian. Né delle altre, che si muovono con passi lunghi sul fondo, con capelli danzanti per via delle correnti, trascinando le più magre sui risciò. È lì che vivono e non hanno altro compito se non quello di stare nascoste, in modo che il mondo non si accorga di loro. Con un gesto tanto lento da sembrare dipinto Tian scioglie il nodo dei capelli sulla nuca, sfila il pendente di corallo chiaro dal lobo sinistro, poi, con uguale lentezza, il pendente di corallo chiaro dal lobo destro. Li raccoglie nelle mani a coppa e li corica sulla stuoia come fossero vivi. Ha inventato un rituale speciale che mette la cattiveria all’inguine e alza la febbre dell’uomo bianco che vorrebbe imprecare se lei non si muove più in fretta, ma non lo fa, per non rovinare tutto. È lei che comanda. A volte aggiunge un supplemento di lentezza, così, per umiliazione. Adesso sì che è brava. Lo dicono tutti. Vale cinquanta dollari e nessuno la salverà. Non ha sempre vissuto sotto il mare, con le altre, l’anima di Tian. Prima stava al suo posto, dentro il filo puro del suo respiro. Quando portava la chiatta con le ceste piene di cocco. Poi per disgrazia una sera è diventata bella e più pregiata della frutta del suo mercato. Quella sera un uomo sudava su di lei e un ciondolo d’acciaio che pendeva dal collo, legato a un laccio di pelle nera, le sbatteva sul naso, con ritmo uguale. E lei pensava che fosse il luccichio del ciondolo che si allontanava e si avvicinava agli occhi a darle il vomito, a bruciarle la pancia, e a farla sanguinare sotto. Aveva provato a chiudere gli occhi ma anche gli occhi dondolavano avanti e indietro dentro le orbite senza liberarsi un momento da quel ciondolo lucido, che ormai sentiva conficcato in una piega del cervello. Pensò che per salvarsi avrebbe dovuto buttarsi giù. Devi essere svelta Tian, buttarti subito, in modo che resti solo il corpo sulla stuoia. Adesso in fondo al mare non si sente più niente, né sonno né fame. E si può sopravvivere. Le bocche, sensibili alle vibrazioni generate dallo spostamento dell’acqua, catturano alghe che vengono digerite piano e mantengono giovani le anime, che non sono mai stanche, e non si fermano neanche per dormire. Camminano, sollevando coi piedi la sabbia finissima che disegna una mezza luna e ricade, senza intorpidire l’acqua, e urtano i cespugli di posidonia sprigionando bolle d’ossigeno. Sono le più piccole a giocare con le bolle. Camminano sui fondali pietrosi che feriscono i piedi e confondono la vista se una manta immobile finge di essere roccia. Tutte, chi più, chi meno, conservano nel limbo del cervello dove si fissano le immagini della memoria, l’ultimo fotogramma del giorno in cui sono diventate belle e hanno buttato l’anima. Un bottone di madreperla, una cintura di cuoio che si sfila dai passanti, la ventola del soffitto che muove l’aria. Un repertorio vario che non fa più male. Perché lì, dove sono ora, non può succedere niente. Sono al sicuro. Anche quando passano grosse nuvole spesse a coprire il mare e la tenebra si fa ancora più buia per via dell’ombra, non provano spavento. Sono arpìe senza vendetta. Pescicani senza ferocia. Nessuno pagherà per le loro vite abortite. Poi un giorno l’anima di Tian si mette davanti a tutte, perchè è stata lei ad avere l’idea, scombinando con un moto repentino l’immenso nero. La gigantesca scia disegna una curva imprevista, abbandona il percorso circolare della terra e comincia a salire. È dalla spiaggia più lunga dell’emisfero sud che pensano di uscire, perchè qui il vento è fortissimo e produce un movimento unico. Come se tutte le onde che transitano in quella riva si mettessero d’accordo per procedere verso terra all’unisono, come aggrappate ad una stessa corda che l’attraversa per il lungo. I primi giorni il viaggio è scomposto. Salendo si urtano, disperdono senza prudenza fitti banchi di pesci, i capelli si impigliano e le piccole si attardano a raccogliere schegge di corallo per farsi delle cavigliere. Mano a mano che il nero si scolora e la luce comincia a filtrare e si intravede il blu, il verde e infine il rosso, la salita si fa più rapida e possono contare sull’aiuto delle meduse per spingere in superficie i risciò. La marea si ingrossa e avanza di notte, per abituare gli occhi alla luce. Mentre gli umani dormono un sonno satollo, toccano la riva. Si trascinano con le braccia e percuotono l’acqua. Qualcuna si inabissa di nuovo per la nostalgia del sapore salato del mare, o per dare un ultimo saluto alla tenebra. Riemerge e tossisce. Qualcuna fa asciugare il vestito, alzando le braccia, e lasciando entrare il vento nelle maniche. Ora sono le magre a trascinare le altre, più appesantite dalla gravità della terra. Visto da qui appare un immane corteo, che non si è mai nemmeno immaginato prima, di cui solo vagamente si intuisce l’intenzione. Si ingrossa, si abbellisce di alghe, conchiglie e altri orpelli per rendersi visibile, rovescia le meduse come fossero ombrelli, a riparare la testa per quando uscirà il sole. E si mette in marcia, per farsi guardare. Affinché il mondo si accorga di loro. Uno straordinario fiume d’anime, vomitato dal mare, avvolto da una nuvola umida prodotta dal sudore evaporato, percorre le spiagge dell’emisfero sud. Attraversa i porti, i mercati del pesce, i centri abitati, le campagne coltivate, i parchi con gli scivoli e le altalene, e le chiese, dove l’uomo bianco prega un dio che si crede buono. Un frastuono accompagna la marcia per via delle ruote arrugginite, del ciondolare delle cavigliere, e delle vene del collo che suonano insieme lo stesso battito con un timbro sordo, per l’emozione forte di quello che succederà. Quando il primo a vederle cadrà per terra scosso da un sentimento di vergogna. Poi il vociare si traduce in urlo forsennato, umano e animale insieme, amplificato dalla sua stessa risonanza. Tanto potente da scuotere il mare, da dove sono venute. Tanto potente da non essere udito. Tian e le altre non sono che aria, vedono gli uomini ma questi non possono vederle. Né sentirle. Non restano immobili a guardare, attratti da una muta fascinazione, né spaventati, nemmeno inorriditi. Nessuno si accorge delle loro vite a metà. Perchè non esistono. Devi essere svelta, buttarti subito, in modo che rimanga solo il tuo corpo sulla stuoia. Buttarti subito! E il richiamo dei mostri delle profondità marine, così familiari, e le correnti gelate che consolano le balene ferite, e i rumori assordanti delle maree, producono una nostalgia così forte da non poter resistere. Succede di notte, per abituare gli occhi al buio. È Tian a tuffarsi per prima. Le altre dietro a lei. Qualcuna scende in mare dalla spiaggia, trascinando il risciò, qualcuna si cala dalla roccia approfittando della schiena di un’onda. Lentamente prendono il largo. Galleggiano sugli abiti gonfiati dall’acqua formando un arcipelago in movimento. Una miriade di atolli luminosi si inabissa e scompare.
Elena Bellei
Dal racconto "L'anima di Tian" è stato tratto lo spettacolo "Lontano dagli occhi - storie di tratta e prostituzione", regia di Stefano Tè, drammaturgia di Elena Bellei, a cura di Teatro dei Venti. 2010 Teatro La Tenda di Modena, Festival del Pd di Modena e cortile del Castello di Carpi.
Questo racconto è giunto al secondo posto nella seconda edizione del premio "Lettere a Letizia", (Caltanissetta, 6 Marzo 2011, ore 17 Aula Magna del Consorzio Universitario) .
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