martedì 9 novembre 2010

Più vivi di sempre

Qui dove mi trovo. Nella stanza, davanti alla tastiera, con lo schermo vuoto, i miei ritagli, gli appunti sparpagliati sul letto, sul pavimento, in completo disordine. Qui potrebbe grondare acqua dal soffitto e sommergermi come se uno squarcio nella lamiera di un sottomarino posato sul fondo dell’oceano di colpo si spaccasse e l’acqua irrompesse a schiacciare ogni forma di vita con la pressione intollerabile. 


Oppure potrebbe aprirsi il tetto della casa per il sole fattosi incandescente, capace di incidere linee di frattura, creare crepe nei mattoni e bruciarmi vivo, qui nella mia fisica immobilità, mentre mi domando quanti dettagli di lei sarò capace di conservare dentro la memoria. 
   
Questa sarà l’unica sua permanenza dentro i giorni futuri. 
Un mosaico di immagini staccate che un sortilegio – desiderio, nostalgia, il dolore ad un grado purissimo – sistema in una narrazione coerente. 


C’era stata quella sera in cui avevamo riso fino alle lacrime ripetendo una frase pronunciata da un amico. Più vivi di sempre.


E quella volta nella galleria d’arte deserta. 
Visitatori fuori orario. Noi due davanti al quadro tutto nero, enorme, con la superficie che pareva assorbire il nostro stesso pensiero lasciandoci estenuati, ma non svuotati, anzi mentre i minuti filtravano ci siamo sentiti sempre più rilassati, strappati alla tensione delle rispettive carriere, liberati dalle incomprensioni con i nostri padri e fratelli maggiori e madri e datori di lavoro e professori, tutte quelle autorità fiammeggianti alle quali abbiamo sacrificato una parte rilevante delle nostre vite.    


Usciti dalla vertigine dell’opera ci siamo domandati se gli anni migliori fossero già fuggiti, in quelle occasioni quando il tempo sembrava rallentare fino a rasentare l’infinito, senza che noi sapessimo valutare l’entità della perdita, senza riuscire a vedere i granelli scorrere da una parte all’altra della clessidra.


C’era stato – anche se troppo di rado – l’appagamento di sapersi riconoscere fortunati, in alcuni attimi quando per prodigiose giunture tutti gli elementi della scena si erano disposti in un ordine perfetto. 
Cose semplici ma difficili da trovare tutte sincronizzate in una unica composizione.
La pioggia terminata. 
Le ombre azzurrate che andavano a depositarsi nei dettagli del paesaggio.
Noi in movimento verso una casa di campagna. 
Una tavolata con amici. Avremmo mangiato cibi saporiti e bevuto vino rosso profumato. 
Le passioni della mente condivise.
Tutto il tepore del mondo e i rumori nel posto giusto.


Stefano Loria 

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