Avevo 18 anni, ero a Parigi.
Ci ero andata in treno, viaggiando di notte, con un gruppo di ragazzi miei coetanei, era la mia prima volta fuori dall’Italia.
Prima di partire non conoscevo nessuno dei compagni di viaggio, venivamo da città diverse, in comune avevamo solo il fatto di avere vinto quel viaggio premio.
Quando scesi dal treno inspirai profondamente, ero emozionata, mi trovavo nella città dei miei sogni. Giurai che avrei vissuto intensamente i pochi giorni che avevo a disposizione, non avrebbe avuto senso avere rimpianti, dopo.
Il nostro gruppo diventò subito molto affiatato, avevamo una guida simpatica che ci accompagnava a vedere musei, piazze e boulevard, ma ci lasciava anche del tempo libero per andare in giro come ci pareva, senza una meta precisa, curiosando per le strade e nei negozi.
Un pomeriggio, mentre stavamo esplorando una libreria con un assortimento meraviglioso di volumi di tutti i generi, si unì a noi un ragazzo francese.
Cercava di parlare italiano, ma non sempre riuscivamo a capirlo. Ci raccontò che suo nonno era italiano e aveva imparato da lui a esprimersi un po’ nella nostra lingua. Era più grande di noi, era forse vicino ai trent’anni, ma studiava ancora.
Si chiamava Gérard, mi piacque subito.
Più tardi, quando passeggiammo tutti insieme per i boulevard, io cercai di stargli accanto facendo finta che fosse per caso. Scambiai con lui qualche parola e riuscii a vedere bene l’azzurro dei suoi occhi.
Il pomeriggio seguente andammo di nuovo alla scoperta della città insieme a Gérard. Io cercavo di stargli sempre il più vicino possibile.
Improvvisamente, senza dire una parola, Gerard mi prese sottobraccio, i nostri passi divennero lenti fino a quando rimanemmo gli ultimi in fondo al gruppo.
Il mio cuore era in tumulto.
Al primo incrocio mi fece cambiare strada, io lo seguii fiduciosa. Mi portò in zone della città sconosciute ai turisti, facendomi vedere le cose che gli piacevano.
I marciapiedi emanavano il calore della giornata, le sue mani erano calde, la sua voce mi stordiva, la mia volontà non esisteva più. Mi aveva ipnotizzato come un mago, lo seguii senza esitazioni e senza domande.
Camminammo, non ricordo più per quanto tempo. Ad un tratto aprì un cancello di ferro che immetteva in un cortiletto umido. Era lì che abitava. Qualche finestra era già illuminata perché intanto si era fatto buio.
Salimmo in silenzio le scale e mi accorsi improvvisamente di non avere più voglia di continuare, di non provare nulla per questo ragazzo che mi precedeva e preparava una chiave.
Una sensazione di vuoto e di vertigine mi avvolse quando la chiave girò nella toppa con troppa facilità.
Dentro era buio.
Anna Rocca
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