martedì 19 ottobre 2010

Frammenti d'aria

Mi aveva guardato a lungo, nella hall dell’hotel, prima di alzarsi, come se non trovasse più parole da dirmi. La stanchezza degli occhi le aveva steso sul viso un velo appena più opaco, lasciandone intatta la bellezza. 

Aveva parlato tanto, durante la notte, nella nostra stanza. Sul tavolino due calici a cui avevamo bevuto e poco distante, di là dai vetri, la facciata di San Giovanni in Laterano su cui indugiava un’ombra chiara. 
L’impronta del suo rossetto rosa sul cristallo mi aveva ossessionato quasi più dell’abbandono. Lo avevo pulito con il fazzoletto, prima di scendere nella hall: ero tornato indietro per farlo.
Aspetta un attimo, ti prego, le avevo detto nel corridoio, ormai davanti all’ascensore. Credo siano state queste le mie ultime parole a lei. Aspetta un attimo, ti prego. Il fermo-immagine della linea triste del suo collo appena inclinato, la moquette chiara che nascondeva i passi, la mia mano ad indicare la porta.
Non mi aveva detto che non mi amava più. Non aveva neppure parlato d’amore, come se l’amore non avesse niente a che fare con la nostra storia.
Si sentiva sola ed infelice. Questo il senso di tutte quelle parole, delle sue lacrime, delle sue dita nervose che avevano tormentato per ore l’angolo del lenzuolo, come se le frasi avessero bisogno di  un gesto a dar loro forza.
Non avevo quasi parlato, per tutta la notte. Qualche movimento della testa, forse. Forse un deglutire leggermente rumoroso, come se dovessi inghiottire sabbia. Eravamo seduti sul letto, lei da una parte accanto al cuscino, io dalla parte opposta, come fossimo sull’erba, ad un pic nic.
Osservavo i suoi occhi,  i riflessi del vestito di seta un po’ demodè, le piccole pieghe che le calze facevano sulle caviglie sottili, la bocca su cui era rimasta una leggerissima sfumatura di rosa. La vedevo a frammenti, così come sentivo solo brani di frasi, senza riuscire ad avere una visione d’insieme di lei e di quello che stava succedendo. 
Forse era stato sempre così, fra noi. Non ero riuscito a cogliere l’essenza della totalità: vivevo di sensazioni, di momenti, di immagini. 
Anche in quelle ore era così. 
Mi chiedevo quando avrebbe bussato il cameriere per portare la cena, senza avere il coraggio di guardare l’orologio. Mi chiedevo anche se avremmo mangiato lì, sul letto, continuando quella scena da colazione sull’erba in cui non stavo assolutamente bene, come se avessi sbagliato quadro. O film.
Aveva anche detto questo, e per un attimo avevo pensato che mi avesse letto nel pensiero: non potevamo più vivere come in un film. L’avevo guardata per un istante, ma non ero riuscito ad incontrare i suoi occhi chini sul copriletto fiorito. La vita non è un film, aveva aggiunto in una specie di singhiozzo e non avevo capito se si riferisse a me o alla vita in generale.
Le avevo preso la mano ed eravamo rimasti così per qualche minuto, in silenzio, fino a che non l’aveva tolta dalla mia e si era alzata per bere un sorso d’acqua. 
Mi ero alzato anch’io e mi ero avvicinato al balcone chiuso. Era buio, ormai, e i fanali delle auto disegnavano cordoni luminosi che si intrecciavano con bagliori inconsistenti. Avevo appoggiato la fronte al vetro e sentivo pulsare con forza i battiti del mio cuore, che sembravano risalire ostinati dal petto per  sbattere contro la finestra, come farfalle notturne. 
Era passata così, la notte. Quel suo vestito che frusciava di vento ogni volta che si muoveva, la cena fredda abbandonata sul tavolino, il mio silenzio rotto da ondate di farfalle notturne che sbattevano contro il petto.
Chissà perché non ce ne eravamo andati subito, la mattina dopo. Ci eravamo seduti nella hall su due poltrone gemelle, una di fronte all’altra, come se avessimo ancora qualcosa da dire, come se dovessimo discutere gli ultimi dettagli di un affare, come se stessimo aspettando i bagagli o il taxi. O una qualunque cosa che potesse salvarci.
Mi aveva guardato a lungo, prima di alzarsi.
Poi si era infilata la giacca e aveva preso la sua piccola valigia. Mi ero alzato anch’io, per una sorta di educazione antica, e avevo fatto il gesto di trattenerla, il braccio teso verso la sua manica. Ma era solo un gesto. Non l’avevo trattenuta, non le avevo preso il braccio, non l’avevo rincorsa.
Era uscita rapidamente, piccoli passi  sui tacchi sottili, un movimento lento ed elegante per mandare indietro i capelli. 
La sua lunga sciarpa di seta aveva ondeggiato appena all’aria, di là dai vetri. Come l’immagine di un film. 

Alessandra Burzacchini

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