lunedì 13 settembre 2010

Sul fare, oggi

C’è molto di interessante nell’ultime testo di Richard Sennett disponibile nella nostra lingua: L’uomo artigiano (Feltrinelli, Milano, 2009). Si tratta di uno studio basato sull’idea che determinate pratiche di vita e di lavoro, caratteristiche delle società pre-industriali, riaffiorino in un contesto come quello odierno, post o iper-industriale, sia pure con segni e aspetti di differenza significativa, di novità sostanziale. Per comprendere questi ultimi, bisogna tornare a fare ricerca sulla cultura materiale, a partire appunto da un approccio di cosiddetto “materialismo culturale”, attento a cogliere quelle trasformazioni della nostra sensibilità e della nostra intelligenza che supportano la realizzazione di valori “religiosi, sociali, politici”.
Ciò che soprattutto mi colpisce, nel testo di Sennett, è la sua “apertura” di carattere autobiografico, nella quale si chiarisce criticamente il suo rapporto con Hannah Arendt e di conseguenza anche una delle ragioni di fondo di una lunga e proficua indagine su quel mondo del “capitalismo flessibile” di cui si coglie anche un disegno di figure sociali dinamiche, pragmatiche, capaci di ridare senso a un progetto di autonomia ed emancipazione personali. Riflettendo sulla troppo rigida distinzione, proposta dall’autrice di Vita activa, tra l’animal laborans e l’homo faber (il primo unicamente concentrato sulla questione del “come”; il secondo impegnato invece sul “perché”), Sennett sottolinea come non sia affatto condivisibile una tale diminuzione della persona pratica nella sua veste lavoratrice, anche perché l’animale umano, l’animal laborans, è pur sempre capace di pensiero.
Sintetizzando al massimo alcune posizioni della Arendt, nel senso di indicare come per quest’ultima la mente entri veramente in funzione soltanto nel momento in cui si cessa di lavorare (se si lavora non si pensa…), il sociologo dell’uomo flessibile osserva come sia oggi invece più equilibrato delineare un’immagine del processo del fare con contenuti anche di “pensiero e sentimento”. Una formula che proporrei, a questo punto, per dare corpo al rovesciamento del quadro d’analisi della Arendt (sia pure effettivamente “forzato”), è quella che mette in evidenza come nella società della conoscenza (nella società di capitalismo postfordista, di capitalismo cognitivo, biocognitivo ecc.) si pensa soltanto quando si lavora – e dato che non si smette di lavorare (in molteplici modi), viene cioè anche meno (scoppia!) la tradizionale coppia tempo di lavoro/tempo di extra-lavoro, si può ben dire che non si smette di pensare, proprio perché tale “attività” è particolarmente “appetita” dal capitalismo cognitivo.

Ubaldo Fadini

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